Dopo aver accecato Polifemo, chiesto scusa a Poseidone e dato i tributi ad Atena, noi folli con la folle combriccola (perché nessuno sano di mente verrebbe in vacanza con noi) ci siamo infine diretti a nord per il rientro a casa (via gomme eh, i traghetti sono troppo semplici).
Da un “ho male alle orecchieeee!” all’altro si è vissuto come chi sul mare esplora zone ignote, tra un’isola e l’altra. Sei lì immerso nel mare di “mi fa maleeeeee!” e sembra che non possa esserci altro nella vita, che ormai sei spacciato nel mare di desolazione in cui ti sei cacciato da solo, quando si avvista di schianto la terra di una nuova isola di ibuprofene da cui riecheggia un implacabile e inesorabile serie di “babbo, hai visto questo? puoi mettere la musica? facciamo un gioco? ho visto una cosa che mi piace molto, sai? quando si mangia? posso salire lì?…“
Tutto va bene e salpi nuovamente verso altre avventure, ma la nostalgia dell’antidolorifico si fa sentire e in mezzo al mare ti trovi a maledire la solitudine e il dolore, soprattutto dei figli “aiutoooo, non riesco a dormire perché questa mi salta sulla pancia agitandosi per il dolore… ho sonnoooo“, e poi con una nuova isola tutto il dolore scompare e si può finalmente dormire perché la piccola non ha più male ed è tutta pimpante. O meglio si potrebbe dormire se Quisquilia nel bel mezzo del pisolo non dicesse “babbo, posso giocare qui sopra?” saltandomi sulla pancia.
Siamo arrivati in Croazia, abbiamo visitato un paio di posti, siamo saliti più a nord e siamo passati dal mare del mal d’orecchi a quello dei problemi intestinali (dobbiamo aver bevuto qualcosa di sbagliato o preso un virussino intestinale), ma stiamo già uscendo anche da queste onde difficili.
Ma voi vi chiederete, chi ce lo fa fare? Perché dobbiamo viaggiare? A cosa servono le vacanze? E ancora prima a cosa serve il vagabondare per il mondo per tutti i giorni dell’anno?
Forse dobbiamo cercare le nostre personali isole di ibuprofene, cos’è che ci fa andare avanti davanti alle difficoltà, al dolore, al senso di solitudine e di impotenza. A non stringere i denti perché si deve ma ad avere un momento in cui si è costretti a chiedersi “ma io, cosa ci faccio qui?“
Siamo passati da un gruppo di amici ad un altro, in questi ultimi giorni di vacanza, e per me non ci sono dubbi. Sono i rapporti, gli incontri, l’altro e le relazioni, queste cose sono il mio antidolorifico. Per come la vedo io l’Altro che incontro nei volti di tutti. Con cui posso parlare, a cui posso dare un abbraccio di conforto o da cui posso ricevere un sorriso di amicizia, o anche semplicemente compagnia.
In queste condizioni è tutto ridimensionato, anche se tutto più difficile. Non so spiegarvelo meglio, ma sia le difficoltà personali serie e sia le urgenze lavorative (pur gravi, eh, per raggiungerci fin qui, non sono mica sciocchezze) diventano come il contorno di una vita piena e non il contrario. Piena di familiari da scoprire, di amici da conoscere meglio, di vita da condividere, di posti da vedere e di mondo da vivere.
Questo sì che è un mare che posso navigare.
Godiamoci gli incontri che facciamo in qualsiasi condizione li facciamo, anche se non è la migliore, anche se non è quella che avevamo in mente, anche se sulle prime ci sembra bruttina. Chissà che regalo c’è dentro. Voglio tornare dalle ferie con questo proposito in testa, in aggiunta al più prosaico “fare la maratona dei pirati dei caraibi” che i figli nostri e degli amici guardano ossessivamente a singhiozzo da quattro giorni in ordine totalmente casuale.
Ora vi saluto, vado a farmi stracciare a macchiavelli.